Ora e per sempre

Un racconto originale di Nykyo

«Stai ben dritto, nipote! Su quella testa!»
Cullen si raddrizzò immediatamente, come colpito dalla sferza della sua balia Brit.
Non riusciva a capire come facesse sua nonna Deirdre, ormai cieca da un paio d’anni, a sapere che postura lui stesse tenendo. Sua madre gli aveva spiegato che la vecchia vedeva con i sensi che le rimanevano, per questo comprendeva sempre se qualcuno le si avvicinava, sapeva riconoscerlo dal suono del passo, dalla voce, dall’odore. Ma i dettagli come quello, come era possibile che lei li notasse?
«Dritto,» gli ribadì anche suo padre Fergus. «Stai per incontrare un figlio di re, ma tu non sei da meno. Mostra deferenza, ma anche fierezza.»
Pur non vedendo come obbedirgli a meno di non mettersi in punta di piedi, tanto era già rigido e impalato, Cullen sollevò il capo per accontentarlo.
«Figlio bastardo, comunque,» mormorò tra sé e sé, ripensando a ciò che gli era stato raccontato a proposito dell’ospite che stava per arrivare.
Per tutta risposta si sentì colpire sulla nuca.
«Morditi quella lingua. Bastardo o non bastardo, Brian O’Darragh è il secondogenito del più importante tra i campioni dell’Ulster, la sua schiatta è antica quanto la tua, la sua casa è onorata e ricca e, soprattutto, il suo fratellastro è cagionevole dalla nascita. Solo gli Dei sanno quanto a lungo vivrà. Si fa presto in mancanza di altri eredi a legittimare un bastardo nato fuori dal matrimonio. Così come si fa presto a giudicare le cose degli adulti quando si conosce ancora poco il mondo. Taci e prima di esprimerti ascolta chi è più esperto e saggio di te.»
Cullen abbassò il capo che aveva appena sollevato. Non ne faceva una giusta.
Sua nonna, dalla sua seggiola vicino al camino, rincarò la dose. «Sarete compagni di giochi e un domani d’armi, come lo sono stati tuo padre e il suo, comportati con onore e gentilezza, piccolo cucciolo indisciplinato.»
Il rimprovero lo colpì nell’orgoglio e Cullen avrebbe voluto obiettare che era ingiusto: lui non era un cucciolo, aveva già otto anni, e non era indisciplinato, semmai curioso e vivace.
Prima che potesse parlare, però, sua madre corse nella sala ad annunciare che gli ospiti del clan amico erano appena arrivati e stavano smontando di sella nel cortile.
Cullen fu sospinto verso la porta e avanzò cercando di mantenersi impettito, finché non sbucò fuori in pieno sole e dovette sollevare un braccio per ripararsi dal riverbero.
Quando si fu abituato alla luce, vide un gruppo di sei uomini, tutti in tenuta da battaglia, con lancia e scudo e con espressioni severe e solenni. E, minuto tra loro, un bimbetto di non più di sei anni: i capelli come fiamme e il viso ricoperto di lentiggini al punto che solo gli occhi verdissimi spiccavano tra tutto quel rosso.
Aveva lineamenti tanto delicati da sembrare una femmina ed era gracile, tutto gomiti e ginocchia. Pareva capitato per caso in mezzo a quella scorta che non gli assomigliava per nulla. Un estraneo perfino tra i suoi. Un uccellino timido, sgraziato e fragile.
E Cullen se lo sarebbe ritrovato sempre alle calcagna, che lo volesse o meno, solo perché gli adulti avevano deciso così senza nemmeno interpellarlo.
Mentre rimuginava vide suo padre spezzare l’immobilità marziale della scorta armata con un poderoso abbraccio al più anziano degli inviati del re.
«Cullen, vieni qui!» lo chiamò poco dopo. «Vieni a conoscere il principe.»
Quando lui lo raggiunse il ragazzino non disse nulla, si limitò a un cenno del capo. L’uomo che suo padre aveva stretto in una presa virile, invece, si fece avanti per guardarlo meglio.
« questo è mio figlio. Figlio, saluta il mio fratello di latte.»
Cullen obbedì, ma i suoi occhi rimasero fissi sul marmocchio dai capelli rossi. Stirpe regale, occhi di fata e il corpicino fragile di un elfo dei boschi.
Non gli ispirava molta simpatia, ma ne era ugualmente incuriosito.
In ogni caso il principino bastardo sarebbe rimasto lì per crescergli accanto, anche se non ne sembrava entusiasta.
Ci sarebbe stato il tempo per conoscerlo meglio.

***

«E poi abbiamo sconfinato… ma non era nostra intenzione avvicinarci alla capanna,» Brian si stava giustificando. «Stavamo solo giocando. Non ci eravamo nemmeno accorti di esserci allontanati tanto.»
Stava lì, davanti al padre di Cullen, con l’espressione contrita e a capo chino.
L’atteggiamento giusto, in effetti. Quel marmocchio era piccolo ma assennato. E obbediente, a differenza di Cullen che aveva un’indole ribelle. Tanto ribelle che avrebbe voluto dirgli di sollevare bene il mento e non vergognarsi per quello che era successo quella mattina.
Non vedeva perché dovessero scusarsi, non erano loro quelli in torto.
Erano entrati nella proprietà di O’Flaherty senza cattive intenzioni, non gli avevano arrecato alcun danno irreparabile e quanto all’offesa che quel pazzo era andato a lamentare di aver ricevuto… beh, il suo stupido cane se l’era cercata.
Tavish era solo un membro minore del clan e stava facendo tante storie perché sperava di ricavarne qualcosa.
Ma Fergus , come suo figlio sapeva bene, aveva un senso di giustizia fin troppo spiccato. Non lasciava mai inascoltati gli appelli dei suoi, neppure se farlo significava mettere sotto accusa il proprio figlio e il suo nuovo pupillo, appena arrivato.
La sua lealtà al clan non guardava in faccia a nessuno, neanche alla progenie di un re.
Del resto, per quel che Cullen ne capiva di politica, quel titolo non era che un modo per riconoscere che, tra tutti i capo clan dell’Ulster, gli O’Darragh erano i più importanti. Ma non erano i soli che potessero fregiarsi di un simile riconoscimento.
Un giorno magari Cullen avrebbe posseduto un seguito di cavalieri sufficienti a dirsi re a sua volta. Avrebbe avuto un carro da guerra trainato dai più veloci cavalli dell’isola e tutti avrebbero dovuto rendergli omaggio, mentre Tavish O’Flaherty sarebbe rimasto niente più che un contadino ormai troppo in là con gli anni per combattere.
Era già anziano. Eppure caspita se sapeva sbraitare, alzando i pugni al cielo e chiedendo di essere risarcito.
Però non era giusto che dovesse essere Brian a dare spiegazioni. Lui non aveva fatto nulla. Era un mocciosetto silenzioso e schivo e Cullen lo trovava insignificante, ma non vedeva perché dovessero prendersela con lui.
«È colpa mia, padre.» Cullen si fece avanti. «Ma che potevo fare? Il cane è sbucato dal nulla, non ha nemmeno abbaiato, ha attaccato e basta, così ho preso il sasso e l’ho lanciato senza pensare. Non è mica morto, l’ho solamente tramortito.»
Così imparava a cercare di sbranare la gente.
Tavish ricominciò a inveire e venne interrotto da Fergus che si era alzato in piedi con aria severa.
«Verrai risarcito,» disse asciutto. «E mio figlio verrà punito come merita, dal momento che era stato incaricato di intrattenere il nostro ospite, non certo di metterlo in pericolo sconfinando nel tuo terreno.»
Il vecchio andò via poco dopo, con un gran sorriso stampato sul grugno sdentato e la borsa assai più pesante.
Cullen, invece, si preparò a denudare la schiena per ricevere il dono poco gradito della sferza.
Osservò di sottecchi suo padre che la soppesava tra le mani e strinse i denti, sapendo che pur amandolo non avrebbe usato una mano leggera. Ma prima che lui potesse offrirsi per la punizione quello scricciolo di Brian si fece avanti, a braccia spalancate.
«Non tocca a lui, tocca a me,» rivendicò, questa volta a testa ben alta. «Cullen mi ha soltanto difeso, io ho aizzato il cane.»
Stava mentendo, quella bestiaccia gli si era gettata contro senza bisogno di alcuna provocazione.
Cullen era pronto a protestare, ma scorse un lampo di comprensione negli occhi del padre. Fergus sapeva, eppure annuì. E fu forse meno aggressivo di quanto sarebbe stato con lui, pur assicurandosi che la punizione servisse da lezione a entrambi i bambini.
«La gratitudine è merce preziosa, Cullen,» sentenziò alla fine. «Oggi la frusta non ti ha sfiorato, eppure hai imparato comunque più di una lezione.»
Lui non rispose e invece sorrise a Brian che si stava rivestendo. La piega della sua bocca tradiva sofferenza, anche se tutto il suo contegno era volto a nasconderla.
Sembrava un passero implume, ma aveva il cuore di un lupo.
«Vieni, andiamo in cucina, Brit ha fatto il pasticcio di carne ed è così buono che ti farà scordare il dolore.»
Brian sorrise a sua volta e allora Cullen gli tese la mano. «Mi piaci, piccoletto, siamo fratelli ora. Grazie. Mi sdebiterò.»
«Siamo pari, mi hai difeso dal cane.» Il sorriso di Brian si fece più dolce, tutto lentiggini e fossette; gli incisivi marcati che lo rendevano buffo in modo tenero. «Non hai avuto paura, anche se quella bestia era enorme, non sei scappato lasciandomi lì, l’hai affrontata come Cú Chulainn.»
Cullen rise di gusto e gli assestò una pacca su una spalla.
«Se io sono Cú Chulainn tu sei Feriad,» scherzò allegro.
Dal suo posto accanto al camino nonna Deirdre sollevò la testa come per guardarli, malgrado le fosse impossibile.
«Non dispensate nomi con tanta leggerezza, voi due poppanti. I nomi hanno un potere enorme, attenti a quelli che scegliete per voi e per gli altri. Potreste attirare su di voi lo sguardo degli dei e incamminarvi su sentieri che non volete percorrere. Un nome, se non si ha forza sufficiente per rinnegarlo in tempo, può segnare un destino…»
Brian parve rabbrividire, ma Cullen rise di nuovo.
La nonna si credeva forse un druido? Non aveva mica mai studiato per diventarlo.
«Andiamo, fratello. Brian o Feriad che sia, il pasticcio di carne ci aspetta.»

***

«A tuo padre non piacerà che tu sia più abile a lanciare una stupida cateia di quanto non te la cavi con la lancia,» constatò Cullen, preparandosi a scagliare il suo mataris dalla punta uncinata. «Non è un’arma da re quella, è roba da stranieri di oltre il mare.»
In verità era ammirato dal modo in cui Brian riusciva a spedirla sempre più in alto e più lontano di tutti gli altri, malgrado il peso. E lo era anche dalla maniera elegante con cui la riprendeva quando, conclusa la sua parabola, la cateia ritornava indietro.
Non era da tutti riuscire a imprimerle la giusta traiettoria. Brian lo faceva sembrare un gioco.
Per quanto negli anni si fosse fatto alto e più robusto, rimaneva sempre meno massiccio e muscoloso degli altri giovani con cui si misurava.
Qualcuno insinuava malignamente che fosse flessuoso come una fanciulla e assomigliasse a una donna anche nei modi.
Era una calunnia che faceva ribollire Cullen di rabbia, tanto era il suo istinto protettivo nei confronti dell’amico, ma nello stesso tempo non cessava mai di farlo sghignazzare.
Conosceva donne, anche sue coetanee, che di flessuoso non avevano proprio nulla, e nemmeno di aggraziato.
Brian, invece, era armonioso.
Specie quando maneggiava quel bastone da lancio che si era costruito lui stesso, copiando quello mostratogli da un viaggiatore che veniva dal sud e dimostrando, tra le altre cose, un notevole talento. Era un’arma solida, ben bilanciata, fasciata alle estremità da due bande di metallo istoriate con i simboli dei loro due clan.
Anche nel pugilato i suoi piedi danzavano con agilità, sopperendo alla mancanza di potenza dei colpi. Sapeva cavarsela in una zuffa come in un duello e tenere testa ad avversari grossi il doppio di lui. Del guerriero, semmai, gli mancava l’indole. Era più portato per la spiritualità e per lo studio della guarigione. Anche per quello veniva accusato di mollezza femminea.
Brian non pareva curarsene, o almeno non lo dava a vedere.
Mentre Cullen si decideva a lanciare, spiccò un salto e afferrò la propria arma senza problemi.
«A destreggiarsi con la lancia son buoni tutti, sai, orso criticone? Ma ne ho visto più d’uno fare lo sbruffone e provare a sfidarmi dicendo che se gliela prestavo avrebbe fatto meglio di me con la mia cateia, e poi fallire o vedersela addirittura piombare su quella rapa che chiamava testa.»
Cullen valutò la distanza che il suo giavellotto aveva raggiunto e si accinse a recuperarlo.
Brian non aveva tutti i torti.
«Tanto mio padre non mostrerà mai orgoglio per come mi batto.» Lo sentì constatare in tono amareggiato. «Per lui è come se non esistessi, sono solo un bastardo.»
In effetti Brian viveva con loro da quasi dieci anni e suo padre non s’era degnato di andare a trovarlo nemmeno una volta. Né lo aveva più mandato a chiamare. Si informava tramite i messaggeri una volta all’anno e nulla più.
Il suo primogenito, nonché erede legittimo, si era dimostrato di una tempra più resistente del previsto e a nessuno pareva interessare della sorte di Brian.
Fergus, però, aveva finito col tenere a lui quanto al suo stesso figlio. Dopo aver partorito Cullen sua moglie gli aveva dato solo femmine. Ben quattro maschi erano nati morti o se ne erano andati nella culla. Brian aveva riempito un vuoto.
Dal momento che gli O’Darragh non si erano ancora fatti sentire per reclamarlo, magari in vista di un matrimonio strategico, e considerato che il suo clan era cresciuto e si era arricchito fino a diventare secondo solo a quello del re, l’uomo sperava di poter presto proporre lui stesso una delle sue ragazze come futura sposa.
Quando ci pensava a Cullen saliva dalle viscere un fastidio profondo che era quasi un dolore fisico.
Non capiva il perché, non si era mai davvero interrogato al riguardo. Voleva bene alle sue sorelle e nessuno al mondo gli era più caro di Brian, avrebbe dovuto essere felice alla prospettiva di vederlo entrare definitivamente nel clan.
Malgrado ciò digrignò i denti quando l’amico, sospirando, aggiunse: «Dovrei mandargli a dire che non intendo tornare, che voglio restare qui e onorarlo con un matrimonio che porti lustro alle nostre tribù.»
«Dovresti dirgli che resterai qui e basta,» sentenziò Cullen. «Non perché ti sposi ma perché non desideri il trono e questa ormai è casa tua.»
«E chi perorerebbe la mia causa affinché tuo padre mi faccia rimanere a mangiare il suo cibo e bere la sua birra, se non gli prometto nulla in cambio? Mi ha istruito, mi ha sfamato, si è preso cura di me e io sono adulto ormai, la mia permanenza s’è prolungata fin troppo.»
«Sposeresti una delle mie sorelle solo per restare? Non sei mica invaghito di una di loro?»
Non gli era mai parso che lo fosse, però poteva sbagliarsi e quell’idea gli causò una nuova fitta simile a un crampo.
«Sono sorelle tue quanto mie, non provo per loro l’affetto che si tributa a una moglie, ma per chi altro dovrei restare in una casa che amo ma che non è mia?»
«Per me,» rispose Cullen, stupendosi un istante dopo delle proprie parole e della veemenza con cui le aveva pronunciate.
«Per te?»
Se non si ingannava, le gote di Brian si erano fatte più rosse.
«Non essere sciocco. Sei una fanciulla tu? Non posso mica promettere di sposare te purché mi lascino restare.»
Cullen lo prese per un polso.
«Se fossi una donna mi chiederesti in moglie?»
Per tutti gli dei! Doveva essere impazzito. Cosa stava dicendo? Dove voleva arrivare?
«Smettila!» Brian pareva addolorato. Lo aveva offeso? Non era sua intenzione, ma neppure riusciva a tacere.
«Rispondi! Lo faresti?»
«Non riesco a immaginare nessuno che sia meno femmina di te, Cullen O’Néill.»
«Ti ho fatto una domanda,» insistette lui, continuando a serrargli il braccio in una morsa ferrea.
Brian lo fissò come se volesse incenerirlo con lo sguardo, poi lo afferrò per la nuca e, sollevandosi in punta di piedi, lo baciò con ferocia.
Si staccò subito, dopo avergli morso un labbro quasi a sangue.
Rimase a fronteggiarlo con il fiato corto e gli occhi che ancora dardeggiavano lampi di una furia trattenuta a stento.
«Ti basta come risposta, stupida testa d’asino? Sei davvero tonto come un mastino mezzo addormentato.»
Cullen si massaggiò il mento che iniziava già a ricoprirsi di barba, sebbene non lunga come avrebbe desiderato.
Aveva ottenuto la sua risposta e ne era meno sconvolto di quanto si sarebbe aspettato.
«Allora resta,» concluse come se il suo ragionamento non facesse una piega.
«Per te? Non posso certo sposarti. Oltre tutto mi meraviglio che tu non sia già stato promesso, presto tuo padre ti troverà una compagna.»
Cullen si rendeva conto che era vero, ma non era disposto ad accettarlo.
«Non mi sposerò. Mai. Se lo vuoi prenderò te davanti agli dei, nel cerchio di pietra, non mi importa se non possiamo dirlo a nessuno. Lo faremo di notte, mentre tutti dormono. So come funziona il rito: legherò il tuo polso al mio, berremo l’idromele e pronunceremo i voti. Non abbiamo bisogno del permesso di nessuno. Tu sei il solo che voglio accanto per la vita.»
Il bacio aveva infranto una barriera, un muro che fino a quel momento gli aveva impedito di capire ciò che provava.
Brian era il suo amico, suo fratello, e molto di più. Per lui avrebbe rinunciato a tutto.
Ma lo vide stirare la bocca in una smorfia amara.
«Sei più grande di me e parli come un moccioso con la testa ancora piena di sogni. Se proprio vuoi prendermi fallo qui, ora. Non con una cerimonia che non ci è consentita. Niente illusioni. Il mio corpo è tuo. Questo ci è concesso. Sai che puoi giacere con me e nessuno ti potrà accusare di nulla, se non di cercare piacere dove ti viene offerto. Ma non chiedermi altro. Questo è il massimo che possiamo avere.»
Cullen sputò sull’erba in segno di disprezzo.
«Non è abbastanza per me.»
Gli sembrava impossibile non essersene accorto prima.
Come sempre, ora che si rendeva conto di ciò che voleva la sua indole lo spingeva a pensare di non doverci rinunciare.
Purtroppo vedeva bene che Brian non lo avrebbe assecondato.
La rabbia montò dentro di lui, sorda, e rischiò di travolgerlo.
Si avventò sulla bocca di Brian, lo baciò e, dal momento che il martellio folle al centro del suo petto non cessava, lo spinse giù sull’erba schiacciandolo con il proprio peso.
Dita più sottili delle sue, ma altrettanto forti, gli si chiusero attorno ai polsi.
«Sei capace di spogliarmi senza strapparmi le vesti di dosso, bestione? Povera la tua sposa quando, che tu voglia o no, te ne daranno una.»
«Ho detto che non prenderò mai moglie. Siete tutti così ottusi voi O’Darragh? Tu sei mio e io tuo. Non apparterrò mai a nessun altro. Perché non vuoi capirlo?»
«Capisco questo.» Brian strinse il suo uccello già duro attraverso la stoffa ruvida dei calzoni. «Capisco che devo averti come posso, il resto sono solo farneticazioni.»
Cullen lo guardò dritto negli occhi e comprese che Brian provava nei suoi confronti il suo stesso attaccamento selvaggio e che, a differenza sua, ne era consapevole da sempre.
Gli morse il collo, per poi succhiarlo in maniera un po’ goffa, nel tentativo di marchiarlo.
Fece ondeggiare i fianchi incontro ai suoi.
«Io forse sono un bambino, ma tu ragioni come un vecchio. Eri già troppo saggio per la tua età quando sei giunto qui. A volte mi fai paura. Ma ti voglio. Ti prego…» Esitò, non era da lui ingoiare l’orgoglio e supplicare. «Vieni con me sulla collina nel bosco, dimmi che anche tu sei mio.»
Brian gli afferò i fianchi, le unghie che affondavano nella pelle, appena sotto i vestiti.
«E dopo cosa vorresti fare? Fuggire con me? Vivere in esilio lontano da tutti perché nessun clan potrebbe accettarci? Un conto è scopare, un altro vivere come proponi tu. Disonoreresti tuo padre e tutta la tua tribù?»
Cullen fu tentato di rispondere di sì, sebbene si rendesse conto che non era così semplice.
Tentennò e Brian lo zittì con un altro bacio arrabbiato, prima che potesse rispondere.
«Non te lo lascerei fare.»
Cullen diede un pugno sul terreno, forte abbastanza da strappare i fili d’erba, ma quando sollevò la mano, il dorso macchiato di verde, l’unico gesto che riuscì a compiere fu una carezza lungo il viso e la gola di Brian.
Chiuse gli occhi per scacciare le lacrime, poco adatte a un futuro campione.
Dentro di sé giurò sul dio Angus che sarebbe rimasto celibe. Poteva dare un erede al clan anche senza nozze.
Il suo cuore era stretto, nemmeno il desiderio riusciva a placare il suo dispiacere.
«Guardami,» sussurrò Brian, in un tono che all’improvviso si era fatto gentile. «Il prossimo anno forse riceverai in dono il tuo primo carro da guerra,» aggiunse appena lui obbedì. «Sei nato per quella vita. Resterò per farti da auriga, finché mi sarà concesso, e poi andrò via. Tuo padre ne sarà ferito, ma non posso sposare una delle tue sorelle. Il re saprà a chi darmi.»
Di nuovo Cullen provò l’impulso a stringerlo troppo forte, a colpirlo, a urlare, invece affondò il viso nel suo petto e si costrinse a non rispondere.
Iniziò a togliergli i vestiti solo dopo essersi calmato.
Doveva sfogarsi in qualche modo. Godere l’avrebbe aiutato.

***

«Devo essere impazzito,» gemette Brian mentre i denti di Cullen gli tormentavano i capezzoli. «Essere qui con te è un rischio troppo grande.»
Cullen lo morse con cattiveria sul pettorale sinistro. Desiderava fargli male e la cosa ironica era che quel desiderio nasceva dalla consapevolezza che l’indomani, sul campo di battaglia, sarebbe stato costretto a ferirlo davvero. O almeno era ciò che prescrivevano le usanze e la legge.
La sofferenza che gli dilaniava il petto domandava sollievo, ma non c’era modo di lenirla.
Il padre di Brian era morto sei mesi prima, suo fratello Dairmat aveva preso il suo posto, sedeva sul suo scranno, comandava sulle tribù, ma non era soddisfatto. La gente amava Brian più di quanto stimasse lui.
Quel fratello bastardo tanto carismatico doveva essere tolto di mezzo.
Assassinarlo però sarebbe servito solo ad attirarsi ancora più biasimo, così quel verme, indegno del nome di re, aveva attaccato briga con il clan O’Néill con l’aiuto di spie e traditori che sarebbero stati ben ricompensati.
Con un pretesto aveva sfidato Fergus, ormai troppo vecchio per combattere, a mettere in campo il suo campione e risolvere la cosa con un duello. E aveva designato Brian perché si battesse in sua vece.
Un piano degno di una subdola serpe.
«Il tuo caro fratello ha previsto tutto,» sentenziò Cullen e spalancò le cosce di Brian con un gesto imperioso. «Non verrà nessuno a sorprenderci, non è ottenere uno scandalo che gli interessa. Né saremo i primi cavalieri che iniziano la loro lotta con una scopata, prima di cavarsi le viscere sul campo di battaglia.»
Lo sguardo di Brian si assottigliò.
«Tua nonna aveva ragione. Aveva il dono e sapeva… Cú Chulainn e Feriad, ci aveva avvisati.»
Le sue gambe tremavano, il sesso svettava inturgidito, curvando appena verso sinistra.
Cullen ne riconosceva ogni vena. Si accucciò e fissò l’amante dal basso.
«Non c’è bisogno del dono per prevedere che dichiararti campione degli O’Darragh mi avrebbe spinto ad accettare questa sfida di persona.»
Non lo aveva fatto per dovere verso la tribù, ma per amore.
Poco importava che appena sei mesi dopo essersi baciati per la prima volta si fossero separati e Brian fosse ripartito senza dargli ascolto. Né che negli undici anni successivi si fossero visti non più di una dozzina di volte. Cullen lo amava e gli era rimasto fedele.
A tempo debito avrebbe dato un erede al Clan, ma non aveva mai accettato di sposarsi.
Tutti conoscevano il motivo di quel rifiuto e nessuno osava fiatare in sua presenza, avendo cara la vita.
Cullen era diventato uno dei guerrieri più noti e potenti dell’Ulster. Lo temevano, lo rispettavano, erano disposti ad acclamarlo malgrado tutto, purché i suoi incontri con Brian restassero sporadici e privati.
Brian, a differenza sua, aveva preso moglie, ma dopo che quest’ultima era morta di una malattia fulminante nessuno aveva più insistito per maritarlo.
Anzi, pensava Cullen. Dairmat sarà lieto che non lasci discendenza.
Lui, invece, aveva subito quel breve matrimonio come un affronto personale. Ne aveva sofferto tanto da evitare Brian fino a che Fionnula era stata in vita.
Diede un morso all’inguine dell’amante, graffiandolo con la lunga barba arruffata e cercò di inghiottire la rabbia.
«Dairmat contava sul fatto che non avrei mai mandato un altro. Nessuno del mio clan si avvicinerà a te con le armi in pugno, finché avrò respiro. Quel cane lo sa.»
Come sapeva che Brian si sarebbe lasciato uccidere, piuttosto che recare danno al suo amore. Dunque l’indomani uno dei due avrebbe perso l’onore. Forse l’avrebbero fatto entrambi.
L’unica altra alternativa era morire insieme. Preservare intatto il prestigio, non arrecare onta alle rispettive tribù e bagnare la terra con il proprio sangue.
«Con questo duello si libera delle due persone che, più di tutte, potrebbero insidiare il suo scranno regale.»
Cullen lo avrebbe fatto volentieri a pezzi.
Spinse Brian a distendersi sulle pelli che ricoprivano il giaciglio da campo, afferrò la sua erezione e, nell’istante esatto in cui prese a succhiarla, iniziò anche a prepararlo con le dita unte d’olio. Lo stesso che l’indomani avrebbe fatto luccicare i suoi muscoli sotto il sole dell’arena da combattimento. Le pitture da guerra avrebbero risaltato sul suo torace, sulle spalle e sulla schiena, mescolandosi a cicatrici e tatuaggi, creando spirali e nodi pronti a stringersi a ogni flessione dei suoi muscoli possenti.
Era alto una testa intera più di Brian, grosso il doppio e abile con la lancia come pochi uomini in tutto l’Ulster. Se avessero combattuto come voleva Dairmat lo avrebbe distrutto. Forse non avrebbe nemmeno dovuto smontare dal carro, sebbene Brian fosse agile come una volpe e altrettanto astuto.
Lo stomaco di Cullen si contrasse.
Il sapore che di norma gli sarebbe sembrato intossicante gli ricordava la cenere di una pira funebre. La pelle di seta che stava accarezzando era calda e liscia, e lui avrebbe dovuto scalfirla, farne scempio. I gemiti che si levavano dalla gola del suo uomo avrebbero potuto trasformarsi in rantoli d’agonia per il volere di un despota vigliacco.
«Cullen…» La voce di Brian era calma, ferma, come la sua mano che gli stringeva una spalla. «Hai ragione. Forse la pazzia non è che tu sia qui con me, se solo tu ci fossi davvero. Sei distante. Ti ho sempre detto che avremmo fatto meglio a stare lontani, ma stanotte, solo stanotte, ti prego: torna da me. Stai con me.»
Malgrado la sua compostezza, entro le mura della sua coscienza doveva essere in corso un’epica battaglia per spingerlo a una simile supplica.
Cullen lo fissò negli occhi. Quegli occhi troppo limpidi, quasi gelidi a volte, ma non in quel momento.
«Il cielo sta davvero per cadere sopra le nostre teste se tu abbandoni la ragione e mi domandi di essere tuo,» replicò alzandosi e osservando il suo bel corpo nudo, abbandonato sulle pellicce.
Brian sostenne il suo sguardo.
«Vieni da me, ho freddo.»
Il gelo della morte o quello della vergogna? Cosa lo stava assediando? Entrambe le cose, probabilmente.
«Dovresti combattere domani. Piantarmi la lama nel cuore. Tuo fratello si attende che tu non lo faccia e di poterti esiliare. Molto più comodo che assassinarti a tradimento. Più facile che farlo fare a me. Se muoio avrai il mio perdono, ti prenderai il mio clan… sarebbe in buone mani, i miei non temerebbero crudeltà e ritorsioni. Se muoio sarai libero, anche da me. Magari la folla ti acclamerà al punto da farti davvero re al posto di quel codardo.»
Brian rabbrividì.
«Ho freddo,» ripeté, malgrado avesse il fuoco nello sguardo.
Cullen si distese su di lui, piegandolo sul pagliericcio fino a fargli appoggiare le gambe sopra le proprie spalle.
Lo penetrò con una spinta secca che lo fece irrigidire e mordersi un labbro per non gridare.
La frizione feriva anche lui.
«Fa male,» disse, la fronte premuta contro quella di Brian in una maniera anch’essa dolorosa.
L’amore faceva sempre male. Lacerava più a fondo di qualunque pugnale.
Cullen spinse più forte e due lacrime spuntarono tra le ciglia del suo amante.
Ne fu felice. Trionfò per quella sofferenza che cancellava la sua rabbia e gli consentiva di obbedire a Brian e tornare da lui. Essere suo, al di là di paure e rovelli.
Quella sofferenza era la sola che fosse disposto a infliggergli.
Lo baciò e rallentò il ritmo, strappandogli singhiozzi e respiri spezzati. Affondò in lui senza sosta, lo ascoltò invocare il suo nome, fremette sotto il tocco delle dita che lo accarezzavano, le unghie che, mentre si inarcava, gli graffiavano la schiena.
«Hai ancora freddo?» si raddolcì quasi contro la sua stessa volontà.
L’indomani li attendeva il gelo della morte o dell’infamia, in quel momento, ancora per poche ore, potevano concedersi il reciproco calore.
Brian parve rilassarsi, muoversi con meno impaccio sotto di lui.
«Ora no. Adesso brucio.»
Stupito da se stesso Cullen gli baciò la fronte imperlata di sudore.
«Non mi importa se le nostre mani non sono state legate insieme durante una promessa, io sono tuo e tu sei mio. Non te lo dimenticare, qualunque cosa succeda.»
«Non lo farò.» Fu la risposta insperata che gli annodò le viscere.
Un istante dopo Brian gridò il suo nome e si tese nell’orgasmo.
Cullen gli lasciò il tempo di riprendere fiato, poi ricominciò a spingere senza più cercare di controllarsi. Versi inarticolati, quasi animaleschi, gli sgorgavano dalla bocca, mentre la sua carne si fondeva con quella dell’unica persona che avesse mai amato.
L’unica per la quale sarebbe stato capace perfino di accettare il disonore per sé e per il proprio clan. Se solo Brian glielo avesse permesso.

***

Ritto sul suo carro Cullen ignorava la folla che stava acclamando lui e Brian con alte grida, le lance dei guerrieri che percuotevano il suolo fin quasi a farlo tremare. Il suo sguardo era fisso su Dairmat, quel codardo.
Cullen non lo distolse finché il re non si alzò e prese la parola.
Solo allora lo spostò su Brian che si era presentato al campo a piedi, armato solo di una spada corta e di uno scudo che, se Cullen lo avesse attaccato dall’alto del pianale, come era suo diritto, gli sarebbe stato strappato di mano al primo assalto.
Stupido incosciente.
Dairmat, intanto, andava blaterando riguardo alle presunte colpe del clan O’Néill e di come si potessero lavare solo con il sangue.
Ipocrita bugiardo, aveva perfino il coraggio di lamentare che suo zio Lúg e Fergus O’Néill erano stati fratelli di latte e che mai proprio dalle sue genti si sarebbe aspettato un simile sgarbo.
Cullen sputò al suolo per mostrargli il suo disprezzo, ma quando si accorse che i suoi si stavano agitando troppo folgorò anche loro con un’occhiata infuocata. Fu sufficiente. Nessuno si sarebbe azzardato ad attaccar briga senza un suo ordine, sebbene ne avessero ogni ragione.
Il re terminò il suo discorso dicendosi grato che gli dei gli avessero dato in sorte un fratellastro tanto coraggioso da battersi come suo campione.
Fino a quel punto arrivava la sua capacità di mistificazione.
«Finiamola con questa farsa!» tuonò Cullen, interrompendolo. «Tu sai bene che la mia gente non ti ha arrecato alcuna offesa, che ti siamo sempre stati leali, come mio padre al tuo, sebbene tu di quel padre non abbia ereditato nemmeno un briciolo di valore e di coraggio. A volte tutte le doti di un genitore finiscono ai figli illegittimi, forse tua madre aveva il sangue marcio, ecco perché t’ha partorito debole e vigliacco.»
Osservò Dairmat schiumare e trattenere a stento se stesso e i suoi.
Le voci dei clan si alzarono di nuovo con forza.
Cullen zittì anche quelle slacciandosi il mantello per restare a torso nudo.
Scostò il giovane auriga che Fergus gli aveva assegnato, sibilandogli tra i denti di portare via il carro, e saltò a terra con la lancia in una mano e lo scudo nell’altra.
Non l’armamentario più utile in una lotta corpo a corpo, ma quella era una battaglia da cui non contava di uscire vivo.
«Finiamola qui,» esclamò battendosi il petto. «Davanti agli uomini, ma soprattutto al cospetto degli dei che sapranno essere veri giudici del coraggio e della schiettezza mia e del mio clan.»
Quel clan che Cullen sentiva di poter onorare solo morendo in battaglia. L’alternativa era impensabile: Brian doveva vivere.
Per salvarlo era disposto ad andarsene senza rimpianti, salvo la consapevolezza che non sarebbe stato comunque al sicuro. Il re avrebbe riprovato a eliminarlo. Ma cosa poteva fare lui se non sacrificarsi? Se avesse rivolto le armi contro Dairmat, tra le tribù si sarebbe scatenata una guerra.
Avanzò verso il suo amante, guardandolo dritto negli occhi. Digrignò i denti in segno di sfida, ben sapendo che non lo avrebbe ingannato.
Sollevò il braccio, fece partire la lancia, imprimendole tutta la forza di cui era capace e la folla trattenne il fiato.
Aveva mancato Brian di proposito, sebbene di poco, e aveva atteso l’attimo esatto in cui, mentre si giravano intorno, lui era passato vicino al seggio regale.
Il mataris si piantò saldamente nel suolo, non lontanissimo dai piedi del re e lì rimase, l’asta che vibrava per l’impatto.
Brian avrebbe potuto afferrarlo e lanciarglielo contro, ma Cullen sapeva che non lo avrebbe fatto.
Aspettò che si spostasse ancora di lato e poi emise un grido stridulo e si slanciò in avanti. Lo raggiunse e lo travolse, sebbene Brian avesse tentato di scartare sulla destra.
Rovinarono entrambi al suolo, in parte nascosti dall’ammassarsi dei due scudi.
Era quello il momento di agire.
Cullen afferrò la lama della spada che, miracolosamente, non era caduta di mano al suo presunto avversario. Strinse fino a tagliarsi il palmo, urlando e ringhiando come una bestia furente. Prima che Brian avesse tempo di capire e di fermarlo diresse la punta contro il proprio ventre e iniziò a tirare per farla penetrare sotto la pelle e la carne, fino alle viscere.
Un suono folle, ben poco umano, gli ferì le orecchie, mentre il sangue iniziava a sgorgare.
Pensò che quello doveva essere il famoso canto della Banshee, giunta per annunciare la sua fine, ma mentre risollevava il capo capì che era stato Brian a urlare e lo stava facendo ancora.
Frenetico e come impazzito, stava cercando di strappargli la spada, o almeno di deviarne il corso, perché la ferita non fosse letale.
Era impossibile dire se ci stesse riuscendo. Cullen stava combattendo contro il dolore e per non cedergli l’arma ed era troppo impegnato per capirlo. Ma Brian pareva animato da una forza sovrumana, che non aveva mai posseduto prima.
Liberata una mano dallo scudo, disimpegnò anche l’altra, visto che ormai la sua daga era penetrata da parte a parte. Con i palmi intrisi di sangue rosso e vischioso spinse su petto di Cullen e la sua disperazione, unita alla debolezza che iniziava a invadere le membra del suo avversario, ebbe la meglio.
Cullen fu sbalzato via.
Con la vista che andava annebbiandosi provò ad alzarsi e ricadde, pietrificato non tanto dalla sofferenza e dall’emorragia quanto da ciò che stava vedendo.
Brian si era slanciato a recuperare il suo giavellotto, svelto come una donnola.
Lo raggiunse e lo scagliò contro il fratello.
Dairmat scattò in piedi, le sue guardie cercarono di ripararlo, ma era troppo tardi. La lama uncinata del mataris lo inchiodò nuovamente sullo scranno, le mani strette intorno al legno dell’impugnatura e il panico dipinto sul volto.
Per un istante il tempo stesso parve arrestarsi. Nell’arena scese un silenzio irreale, rotto solo dai rantoli spezzati del re moribondo che, in pochi attimi, si accasciò, livido e senza vita.
Uno dei suoi cavalieri corse verso Brian, spada in pugno, ma Cullen era riuscito a riprendersi e per quanto poco lo reggessero le gambe, si parò davanti al suo amante e sferrò un pugno dritto sul viso dell’aggressore. Sentì il suono secco dell’osso del naso che si spezzava e ne approfittò per torcergli il polso e disarmarlo.
Con un calcio lo fece cadere e si impossessò delle sue armi.
Stava ancora sanguinando come se lo avessero scannato, ma le sue interiora non si stavano riversando sul terreno, segno che Brian, poco prima, doveva essere riuscito a spostare la lama per non ferirlo in un punto vitale.
Restava il fatto che, senza cure, non avrebbe resistito a lungo.
«Lascia che mi consegni.» La voce di Brian lo raggiunse calma e rassegnata, ma Cullen scosse il capo.
Andassero in malora le regole, gli dei e quegli uomini rabbiosi che non sapevano riconoscere il vero valore.
«Mai.» Poi lo ripeté a voce ben alta, rivolto alla folla che fremeva, incerta se gettarsi nella mischia. «Mai! Brian del clan O’Darragh non è un traditore. Ha ucciso suo fratello perché ci è stato costretto. Quel cane tramava contro il suo stesso sangue, ha inventato false accuse nei confronti della mia gente ed era mosso solo da invidia. Brian dovrebbe essere re al suo posto.»
Tacque e, con suo immenso sollievo, una voce risuonò subito a fargli eco: «Brian O’Darragh è il nuovo re!»
Presto divenne un coro, scadenzato dal battere delle lance sugli scudi, potente al punto da ricordare il rombo di un tuono.
Quando quel baccano si placò Brian mosse un passo in avanti e scosse il capo.
«Non sono nato per regnare. Scegliete un altro, io da oggi voto la mia vita a un unico destino.»
Si voltò verso Cullen che lo fissava incredulo e gli tese la mano.
Lo fece senza timori, a testa alta, davanti a tutti i clan riuniti e Cullen pensò che sul serio doveva aver perso il senno.
«Puoi avere un trono,» sussurrò, abbassando gli occhi sulla polvere macchiata di sangue. «Prestigio, ricchezza, potere. Vuoi davvero me, a costo di esilio e disonore?»
«Se tu mi desideri ancora io non chiedo di meglio.»
Cullen si morse un labbro, cercando di non svenire proprio in quel momento.
«C’è mai stato altro che io abbia desiderato?»

***

Mentre risalivano l’erta della collina Cullen sentì la ferita tirare, nonostante fosse ormai rimarginata da più di un mese.
Per sua fortuna e grazie alle cure di Brian era guarito perfettamente.
Aveva recuperato tutto il suo vigore, ciononostante i suoi giorni da guerriero erano finiti. Non aveva più diritto neppure al suo cognome.
Suo padre, ormai prossimo alla morte, gli aveva mandato a dire che lo perdonava – un dono inaspettato – ma non aveva potuto che confermare il bando.
Il capo del clan O’Néill ora era Eanna, il marito della maggiore tra le sue sorelle.
Cullen non aveva rimpianti. Si fermò nel cerchio delimitato dalle pietre istoriate e si volse a Brian.
«Sei certo…» esordì, ma Brian lo zittì con un bacio, per nulla intimidito dalla presenza del vecchio che li stava aspettando.
Cullen non lo conosceva, sapeva solo che veniva dalla Britannia, che si chiamava Myrddin e che aveva accettato di unirli.
Tanto bastava. Non intendeva porre domande che potessero dissuadere quel druido strampalato o far cambiare idea al suo futuro sposo.
La cerimonia fu breve, non vi erano altri che loro, nessuno li avrebbe festeggiati o condotti al talamo, ma per Cullen non aveva importanza.
Sorrise, il braccio ancora legato a quello di Brian.
«Ora ci apparteniamo anche davanti agli dei.» Era qualcosa che aveva solo osato sognare.
Brian lo baciò di nuovo e poi annuì solennemente.
«Ora e per sempre.»


L’autrice

Sarda con il mare e il vento nel DNA. Lettrice avida e autrice desiderosa di fare gavetta ho scelto questo pseudonimo nel 2005, quando ho iniziato a muovere i primi passi nel mondo della scrittura amatoriale. Nel 2017 ho pubblicato il mio romanzo d’esordio, “Sogno di una notte”, con la casa editrice Triskell Edizioni. Negli anni non ho mai smesso di sperimentare e, pur avendo pubblicato soprattutto romanzi e racconti di genere romance MM, ho spaziato spesso nei sottogeneri, dal contemporaneo allo storico. Quando non scrivo vivo immersa nelle pagine dei romanzi altrui, in veste di editor e correttrice di bozze.


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