Insonnia

James Patterson aprì gli occhi nel buio.
Si era fatto una rapida doccia e si era messo a letto, ore prima, ma addormentarsi gli risultava un’impresa impossibile. Il suo compagno Hank, al contrario, russava già da molto tempo. Poteva chiaramente sentirne il respiro pesante attraverso la parete che separava le loro anguste cabine.
Si sentiva stranamente a disagio, e non sapeva spiegarsi neanche lui il perché. Era in nottate come queste, in cui il sonno sembrava non tangerlo minimamente, che si fermava a chiedersi cosa sarebbe stato della sua vita se fosse rimasto su Subulla, o se avesse proseguito la sua carriera nelle Forze d’Assalto, o se non avesse conosciuto il gangster Venom, attuale causa della onerosa taglia sulla sua testa. Certo, quante ne aveva passate, quante cose aveva visto e quante avventure avrebbe potuto raccontare, se solo avesse avuto accanto qualcuno voglioso di ascoltarlo.
Mai come di notte la solitudine gli stringeva la gola con le sue dita fredde e ossute, opprimendolo come il peggiore degli incubi. Era per colpa sua se ora si ritrovava solo come un cane – lui che si era fatto terra bruciata attorno e non aveva saputo tenersi strette le poche persone buone che aveva incontrato sul suo cammino e che gli avevano voluto bene veramente. Alle volte pensava a suo padre, partito troppo presto perché lui potesse serbarne un ricordo, e a sua madre, morta troppo giovane perché potesse vederlo crescere e farsi adulto. Forse era stato meglio così…cosa avrebbe potuto pensare sua madre dell’uomo che era diventato? Un contrabbandiere, un delinquente, traditore con i compagni e bastardo con le donne.
Decise di rivestirsi e di uscire dalla sua piccola astronave per andare a fare un giro e rinfrescarsi un po’ le idee. Cosa altro avrebbe potuto fare da solo a quell’ora della notte? Se avesse messo mano a quel fusibile difettoso che aveva iniziato a riparare nel pomeriggio, Hank gli avrebbe certamente spaccato la testa. Mai disturbarlo nel sonno, se voleva avere salva la vita.

La base militare era tranquilla e silenziosa. James incrociò solo qualche sottufficiale addetto alla ronda notturna, ma nessuno gli rivolse un cenno di saluto. Tutti ormai nella base sapevano chi fosse, e tutti facevano del loro meglio per metterlo ai margini. Malgrado la sua partecipazione all’ultima missione su Arobi e il contributo fondamentale al salvataggio di cinquanta ostaggi tenuti prigionieri sul pianeta, il suo ruolo in quella base non era ancora ufficiale – per scelta sua, che da sempre era intollerante a qualsiasi tipo di impegno stabile. Non erano in molti lì a condividere il suo modo di fare, la sua totale mancanza di regole e di limiti, e anche questo contribuiva ad accrescere la sua solitudine: non era uno di loro e ciò faceva di lui un estraneo, quasi un nemico da evitare.
Per poco non strabuzzò gli occhi per lo stupore quando, in fondo al corridoio che portava alla mensa, vide il maggiore Sarah Williams. Per un momento pensò di chiamarla e di avvicinarsi a lei, ma scacciò subito quell’idea dalla mente: avrebbero finito di certo col litigare, come facevano ogni volta che erano vicini, e non ne aveva proprio voglia quella notte. Fu invece lei, accortasi della sua presenza dall’altra parte del corridoio, ad alzare una mano in segno di saluto e a cambiare la sua direzione per venirgli incontro.
“Che ci fa in giro a quest’ora della notte, Patterson?” gli chiese, quando si fu avvicinata abbastanza.
“Potrei chiederle lo stesso, maggiore” rispose l’uomo accennando un saluto militare con la mano.
La donna fece spallucce. “Non riuscivo a dormire, e avevo voglia di camminare un po’” ammise senza scendere troppo nei particolari. “Le va di farmi compagnia?”
James la fissò con un sopracciglio inarcato, come se non fosse sicuro di aver capito bene la sua richiesta, poi le rivolse un sorrisetto sghembo. “Perché no?”

Per molti minuti camminarono per i corridoi deserti nel silenzio interrotto solo dal rumore dei loro stivali sul pavimento metallico.
“A volte mi capita di sentirmi sola” disse il maggiore ad un tratto. “Capisce cosa intendo?”
Patterson annuì, sorpreso. Incredibilmente, quello era lo stesso motivo che aveva spinto giù dal letto anche lui. “Ha tante persone qui che la rispettano e la stimano” obiettò.
“Mi temono, forse” lo corresse. “Nessuno che tenga a me per la persona che sono e non per il ruolo che ricopro, nessuno che mi apprezzi davvero. Ma non posso lamentarmi…in fondo, è colpa mia.”
“In che senso?”
“Ho un carattere orrendo, mi mostro insensibile e senza cuore di fronte a qualsiasi cosa. Sono così ossessionata dal senso del dovere da non vedere altro…e poi mi stupisco che nessuno voglia starmi accanto. Non è poi così strano che la gente mi consideri incapace di provare dei sentimenti!”
James sorrise genuinamente di quell’analisi tanto precisa e veritiera. A essere sinceri, quelle erano cose che pensava anche lui e che, evidentemente, erano condivise da molte persone lì dentro – anche se nessuno le ammetteva ad alta voce.
“Non ho ragione?” lo incalzò.
“Potrebbe essere, ma non credo che lei sia solo questo, maggiore.” Si passò due dita nel colletto della camicia, fattasi improvvisamente troppo stretto. “Secondo me, sotto quella corazza di ghiaccio che è stata tanto brava a costruirsi c’è un cuore che batte e che ogni tanto esige la sua attenzione, anche se lei si ostina in tutti i modi a metterlo a tacere.”
“Ora fa anche lo psicologo, Patterson?” chiese divertita la donna.
“Credo di aver imparato un po’ a conoscerla. Potrebbe provare ad essere se stessa, qualche volta, e a seguire il proprio istinto…vedrà che la gente inizierà a considerarla in modo diverso.”
Il maggiore annuì, sorridendo bonariamente. James Patterson le piaceva perché, nonostante il suo apparente menefreghismo, era forse l’unico ad essere andato aldilà della superficie e ad aver capito chi fosse davvero. Lo odiava perché era arrogante, irrispettoso, bugiardo e perché aveva mille altri difetti, ma allo stesso tempo lo stimava profondamente. Sapeva essere onesto, almeno con lei, e sembrava capirla davvero.
Avrebbe voluto chiedergli se anche lui, di tanto in tanto, sentiva la solitudine e la mancanza di persone che nella sua vita erano state importanti e che ora non c’erano più, ma sapeva bene che non lo avrebbe mai ammesso davanti a lei e in fondo non era necessario che lo facesse, perché conosceva già la risposta. Il suo sguardo incupito dalla tristezza e il fatto che stesse vagando senza meta per la base nel mezzo della notte indicavano che anche lui soffriva in silenzio. James aveva un cuore che talvolta sanguinava, proprio come il suo.

Lo sguardo del maggiore cadde sul polso destro dell’uomo, che fuoriusciva appena dalla camicia, e sul tatuaggio dai bordi un po’ sbiaditi che si intravedeva.
“Non mi ero mai accorta che avesse un tatuaggio, Patterson” fece, anche per distogliere un po’ l’attenzione da lei.
James spostò un poco il tessuto del polsino, quel tanto che bastava per mostrare le cifre e le lettere incise sulla sua pelle da anni. “Intende questo?”
“Sì. Sembrano coordinate, mi sbaglio?”
“No, non si sbaglia. Sono le coordinate della mia città natale su Subulla. Fu praticamente rasa al suolo durante la III Guerra Intergalattica, quando io avevo pochi anni e forse lei ancora non c’era.”
Sarah tacque, sorpresa dal significato profondo di quel piccolo tatuaggio e dalla semplicità con cui James aveva menzionato quell’episodio così triste del suo passato. Ciò che sapeva della III Guerra Intergalattica lo aveva appreso all’accademia militare, durante il suo percorso per diventare maggiore. Una guerra atroce e sanguinosa, combattuta casa per casa, che non aveva risparmiato ospedali, scuole, spazioporti, luoghi di preghiera. Centinaia di migliaia di civili erano caduti negli scontri su diversi pianeti dell’Orlo Esterno, e Subulla era stato uno dei più colpiti. “Scusi, sono stata indelicata. Non volevo farle ricordare un passato doloroso, ero soltanto curiosa.”
“Non si preoccupi, è passato tanto tempo ormai.” Fece un grosso sospiro. “Mio padre partì al fronte, mia madre morì in seguito ai bombardamenti e io rimasi orfano e per di più mutilato. Le schegge di un ordigno mi maciullarono il braccio sinistro.”
“Non lo sapevo. Mi dispiace, davvero.” Per enfatizzare il concetto sfiorò con la punta delle dita quel codice impresso sulla pelle che conteneva tanta sofferenza, un gesto che fece rabbrividire l’uomo. “Siamo tutti in guerra, ma questo non dovrebbe capitare ad un bambino così piccolo.”
James fece spallucce. “Alla fine si cresce, in un modo o nell’altro. Io sono solo cresciuto un po’ prima di altri ragazzini.”

Rimasero a guardarsi così, fermi in mezzo all’hangar deserto, per un tempo indefinito, cercando altri modi per esprimere ciò che stavano provando in quel momento. Di solito le loro parole prendevano traiettorie pericolose quando erano vicini. In momenti come questo, in cui parlavano come due persone civili e non perdevano tempo beccarsi stupidamente, in cui si davano sostegno e conforto l’un l’altro in un modo che solo loro sapevano, James si ritrovava ad apprezzare la compagnia di quella giovane donna tanto spigliata ed intraprendente, non troppo diversa da come era lui in effetti. La sua bellezza e il suo indomabile carattere, beh…quelli li apprezzava sempre, nonostante facesse del suo meglio per non pensarci.
Per un istante lo sguardo dell’uomo indugiò sui suoi incantevoli occhi castani e sulle sue labbra semiaperte. Avrebbe potuto baciarla così, su due piedi, e farle capire che non era sola perché lui la stimava e l’apprezzava, anzi ne era fatalmente attratto, ma non sarebbe stato corretto – sapeva già che l’indomani avrebbero ricominciato a scannarsi l’un l’altra in modo ancora più feroce e crudele e quel bacio sarebbe stato solo un motivo in più per farsi del male. Lasciò allora che quel momento di tensione fra di loro passasse, e con esso il desiderio di una cosa che non si sarebbe mai potuta realizzare.
“Io me ne torno all’astronave” disse. “Non vorrei che Hank inizi a darmi per disperso.”
La donna annuì sorniona. Ormai aveva imparato a capire quando James le mentiva. Era più che certa che il suo compagno non si era neanche accorto della sua assenza e che quella fosse solo una scusa per andare via, ma fece finta di credervi. “Torno anch’io. Domani sarà una giornata impegnativa e vorrei riuscire a riposare un po’. Grazie per la chiacchierata – ne avevo bisogno.”
L’uomo le sorrise dolcemente. “È stato un piacere, Sarah.”
Era la prima volta che lo sentiva pronunciare il suo nome, e ne fu turbata perché nessuno mai aveva osato una tale confidenza prima di allora. Per un momento pensò che avrebbe dovuto redarguirlo per quella mancanza di rispetto nei suoi confronti, tuttavia esitò. Il proprio nome suonava strano sulle labbra di lui, come una promessa di cose che non ancora conosceva ma che, inspiegabilmente, non le dispiacevano affatto, e per questo fu scossa da uno strano brivido. Gli diede un bacio fuggevole sulla guancia, poi si voltò e si allontanò a passo svelto, diretta ai suoi alloggi.


Il maggiore Sarah Williams aprì gli occhi nel buio.
Si stiracchiò e sbadigliò, cercando di fare il meno rumore possibile per non disturbare il suo amante steso accanto a lei. Non erano trascorsi molti giorni da quando, finalmente, lei e James avevano smesso di darsi addosso e avevano accettato la realtà di essere attratti l’uno dall’altra.
Solo qualche sera prima Patterson l’aveva sorpresa a piangere nella propria cabina, sentendola singhiozzare attraverso la porta chiusa. Aveva bussato e ribussato, non mostrando alcuna intenzione di lasciarla sola con la sua sofferenza, fino a che lei non gli aveva aperto con uno sguardo ferito che gli aveva spezzato il cuore. Per istinto Sarah si era gettata a peso morto fra le sue braccia, fra i singhiozzi, senza spiegare i motivi del suo dolore e delle sue lacrime, e lui l’aveva stretta a sé, non potendo fare altro, e aveva lasciato che si sfogasse e che tornasse alla calma.
Solo dopo molto tempo gli aveva confessato di aver appreso della morte di un caro amico di suo padre, un generale delle truppe al fronte su Orbian, caduto in battaglia – una persona di famiglia, che andava ad allungare la lista di quelli che non c’erano più per colpa di una guerra ingiusta e crudele che da troppo tempo ormai insanguinava la galassia. Chi meglio di James poteva capirla, lui che aveva visto i bombardamenti sin da quando era piccolo, che aveva pagato un tributo altissimo a quel logorante conflitto.
Non aveva avuto parole per consolarla, Patterson, perché in effetti parole adatte non esistevano: non si poteva far altro che piangere chi non c’era più, senza provare a domandarsi il perché di tante atrocità. L’aveva confortata a modo suo, facendole sentire il calore del suo corpo e il vigore del suo abbraccio, dimostrandole che lui era lì, vivo e vero, a soffrire con lei. Poi l’aveva finalmente baciata – dopo lunghissimi mesi passati a ronzarle intorno, troppo vigliacco per farsi avanti ma sempre speranzoso che le cose fra loro due potessero ingranare, in un modo o nell’altro. All’inizio si era mosso in modo goffo, impacciato, e solo dopo alcuni istanti si era lasciato andare a quella passione che aveva tenuto sedata per tutto quel tempo, aveva osato accarezzarle le guance, umide per il pianto, e affondare le dita fra le sue lunghe ciocche scure per attirarla più vicino a sé.

Sarah si era lasciata baciare da quell’uomo dalla scorza dura, ma che mostrava di tanto in tanto una gentilezza e una nobiltà d’animo senza eguali. Aveva deciso di fidarsi di lui, malgrado tutto – malgrado non fosse il partito adatto ad una come lei, malgrado avesse fama di seduttore incallito e senza scrupoli…malgrado stesse per partire, forse per sempre. Si era resa conto di amarlo, moltissimo, ed era certa che anche lui, a suo modo, ricambiasse quel sentimento, e per ora questo bastava a darle quella sicurezza e quella serenità che per troppo tempo le erano mancate.
Lo aveva implorato di restare a dormire con lei per quella notte, nel suo letto, perché non ce la faceva a stare da sola, e quella che doveva essere un’eccezione era diventata immediatamente un’abitudine. Ogni sera, al momento dell’ultimo cambio di turno prima della notte, Patterson sgattaiolava nel suo alloggio come un ladro, evitando il più possibile sguardi indiscreti e pettegoli. Se gli altri ufficiali lo avessero inquadrato come amante del maggiore, avrebbero subito pensato ad una mossa opportunistica da parte sua, travisando completamente il senso di quella loro relazione che andava protetta come un fiore raro e delicato.

“C’è qualche problema, dolcezza?” chiese piano James.
Sarah si voltò a guardarlo. Era convinta che stesse dormendo, ma evidentemente si era sbagliata. “Ma tu non dormi mai?!”
“Potrei dire lo stesso di te” rispose l’uomo, facendo passare il braccio artificiale sotto il suo corpo e attirandola accanto a sé. “Non immaginavo che tu dormissi così poco, visto quanto sei attiva di giorno.” Si passò una mano sugli occhi assonnati, soffocando uno sbadiglio. “Hai fatto un incubo?”
Sarah scosse la testa. Non era stato un brutto sogno a svegliarla, piuttosto…una spiacevole sensazione: non sapeva spiegarsi neanche lei come, ma aveva come un presentimento che qualcosa di terribile stesse per accadere loro, ma non riusciva a dire cosa. Ovviamente non voleva rivelare questa sua paura a James: sicuramente l’avrebbe schernita, sminuendo la sua ansia e sostenendo che non c’era nulla che lui non potesse affrontare e vincere. “Non lo so…mi sentivo un po’ triste” disse, sperando che lui le credesse.
Immediatamente James la strinse un po’ più forte. “Perché? Qualcosa non va?” Era diventato terribilmente pauroso, da un po’ di tempo a questa parte, terrorizzato all’idea che lei, per motivi a lui ignoti, potesse allontanarlo e distruggere in questo modo il legame che si era creato fra di loro con tanta fatica. Perché, fuor di dubbio, c’era qualcosa di speciale che li legava: non era necessario darvi un nome, l’importante era che fosse lì, in mezzo a loro, chiaro e concreto.
“No, non c’è niente che non va” lo rassicurò la donna. “Alle volte mi capita.”
Patterson non poteva tollerare quel broncio sul volto della sua donna, soprattutto non ora che erano a letto insieme. Se era vero che lui non c’entrava, allora poteva fare qualcosa per toglierle questi brutti pensieri dalla testa. “Ti fidi di me?” le chiese.
Sarah annuì.
“E allora chiudi gli occhi.”
“Ma che vuoi fare?!”
“Hai detto che ti fidi di me, quindi chiudi gli occhi e rilassati.”
Fece come lui le aveva detto, e subito lo sentì sciogliere l’abbraccio che li univa e muoversi sul materasso accanto a lei. Un brivido la percorse, ma non era paura. La sua mente già figurava cosa avrebbe potuto farle, e il suo corpo era desideroso dei suoi baci e delle sue carezze come non lo era mai stato.
Non appena James iniziò a baciarle il collo, Sarah sospirò di piacere, e sentì le labbra del suo amante distendersi in un beffardo sorriso. Quasi senza accorgersene la donna fece scivolare le dita fra i suoi capelli, e poi più giù, sul suo collo e sulle spalle tornite, alla disperata ricerca di un appiglio al quale aggrapparsi nella tempesta di sensazioni che la scuotevano tutta. Con James stava imparando a dare ascolto ai propri istinti, a lasciarsi andare veramente, a dimenticare per qualche momento i propri ruoli istituzionali e le proprie responsabilità. Fra le sue braccia poteva concedersi il lusso di essere se stessa, soltanto Sarah, senza doversi vergognare di nulla.
Ora, mentre le dita callose dell’uomo si insinuavano sotto la camicia che indossava e si muovevano con estrema agilità sulla sua pelle, una vocina nella sua testa le intimava di smetterla, perché ci sarebbero state complicazioni assai spiacevoli da gestire se si fosse finalmente concessa a lui. Malgrado i sentimenti che li legavano lui sarebbe andato via lo stesso, presto o tardi, e avrebbe lasciato una ferita troppo profonda da rimarginare.
Sarah decise di ignorare quell’odiosa e stridula vocina alla quale di solito dava tanta importanza: voleva sentirsi viva, senza limiti e senza censure, e fare per una buona volta quello che le suggeriva il proprio cuore. Quella notte non gli avrebbe detto di no, lo avrebbe seguito qualsiasi fossero le sue intenzioni. Poteva essere ingenua e inesperta su questi argomenti, ma certamente non era una stupida: aveva notato il modo in cui lui la guardava ogni volta che erano soli, come ad esempio quando al mattino si alzava dal loro letto o quando si spazzolava i capelli canticchiando a bassa voce nel piccolo bagno. La sua voglia per lei era chiara ed evidente, e se stanotte avesse provato a sedurla, lei non si sarebbe in alcun modo opposta, perché la stessa voglia si rifletteva anche nel proprio animo.
“Sono riuscito a distrarla un po’, maggiore?” La voce di James, calda e suadente, fece capolino fra i suoi mille pensieri.
Aprì gli occhi e vide che lui la stava osservando con una curiosa espressione sul volto: passione, sì, desiderio, ma anche qualcosa di più profondo, quasi pericoloso. “Ottimo lavoro, Patterson” rispose, senza fiato. “Impeccabile come sempre.” Se non altro era riuscito ad allontanare la sua mente da quei brutti presagi di morte.
James le sorrise, impudente come al solito. “Bene.” Si avvicinò al suo volto e la baciò nuovamente, con languido ardore.
Si staccarono, col fiato corto, e rimasero a guardarsi per lunghi istanti nella quasi totale oscurità che li avvolgeva, senza che nessuno avesse il coraggio di dire qualcosa per paura di turbare quel momento tanto intenso fra di loro. James le riabbottonò il bottone della camicia che lasciava intravedere il seno nudo, poi la prese fra le braccia e la fece stendere su di lui, accarezzandole dolcemente i capelli e sospirando profondamente per provare a darsi un contegno. Malgrado l’apparente docilità di lei, non si sarebbe mai permesso di andare oltre il limite che si erano tacitamente imposti. Non si sarebbe comportato come con tutte le altre donne del suo passato, sfruttando il suo corpo meraviglioso per qualche ora di lussurioso godimento – non importava quanto la desiderasse.
Ancora intossicata dalla dolcezza e dalla passione dei suoi baci, Sarah chiese: “E tu? Perché eri sveglio?”
“Stavo pensando.”
La donna annuì, comprensiva. Non osava chiedere a cosa fossero rivolti i suoi pensieri in quel momento, perché temeva la risposta che avrebbe potuto darle. Stava forse pensando a quanto tempo rimaneva loro da vivere insieme? all’accoglienza che gli avrebbe riservato il cacciatore di taglie che lo tormentava? a cosa avrebbe fatto una volta lasciatala? Questo era il loro problema, l’incertezza del futuro, che li portava a frenare continuamente i loro impulsi, a non dirsi mai ciò che pensavano, a tacere i loro sentimenti.

James la baciò sulla fronte, senza aggiungere altro. Anche se non voleva ammetterlo ad alta voce, stava pensando a lei, a come sarebbe stato difficile dirle addio e impossibile dimenticare il dolce sapore delle sue labbra, la morbidezza della sua pelle e il suono melodioso della sua voce. Come avrebbe fatto a lasciarla dopo ciò che era accaduto fra loro? Come avrebbe fatto ad andare avanti e a continuare la sua mediocre esistenza da delinquente, dopo aver assaggiato la purezza e la magnificenza del suo amore per lui? Tanto valeva che Venom lo ammazzasse, una volta atterrato su Dranlun…ogni giorno trascorso lontano da lei sarebbe stato un’atroce tortura, e certamente non avrebbe potuto guardare nessun’altra senza vedervi la donna che gli aveva stregato il cuore.
La giovane lo scosse gentilmente dalle sue riflessioni, sfiorandogli le labbra con un bacio. “Sei ancora qui” sussurrò, intuendo la natura della foschia che gli annebbiava la mente anche se lui non aveva parlato. Ormai era come un libro aperto per lei. “Non te ne sei ancora andato.”
James sorrise amaramente. In un’altra occasione si sarebbe mostrato sfrontato e avrebbe fatto la parte del duro per non mostrare i suoi sentimenti, ma stanotte era diverso. “Lo so. Ma fa male pensare a…”
Non finì la frase, perché Sarah premette nuovamente le labbra sulle sue e gli impedì di dare voce all’angoscia che lo tormentava. Non voleva che lui parlasse, come se non sentirlo potesse in qualche modo allontanare quell’ombra nera dai loro cuori e darle meno concretezza, meno significato.
“Fa male anche a me” confessò sulle sue labbra.
I due amanti si strinsero in un forte abbraccio. Due cuori soli, temprati da una vita difficile, senza più una casa, senza nessuno che volesse loro bene, avevano scoperto di amarsi nel modo più profondo e struggente che si potesse sperimentare. Sarebbe stato impossibile mettere fine al sentimento che li legava indissolubilmente, e lo sapevano bene entrambi. La lontananza non avrebbe fatto altro che alimentare il fuoco dell’amore che li consumava.


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