Mauerfall

Martedì 9.11.1999

“Ragazzi, sapete cosa si celebra oggi?” dico ai miei studenti annoiati, cercando di destare in loro un qualche interesse. Mario, in ultima fila, è troppo impegnato a copiare gli esercizi di matematica per l’ora successiva per prestare attenzione alla mia domanda.
Per fortuna c’è Serena, Serenella, la più brava della classe, sempre con la mano alzata per dimostrare ai suoi compagni e al mondo intero che lei sa, qualunque sia l’interrogativo.
“Serena, tu sai cosa si ricorda oggi?” chiedo. Domanda retorica.
“Certamente prof. Oggi è il Mauerfall.”
Complimenti, Hermione Granger, dieci punti a Grifondoro. “Esatto Serena, oggi è il Mauerfall. Vogliamo spiegare anche ai tuoi compagni di cosa si tratta?” Stamattina sono completamente fuori fase, avere una ragazzetta saputella che mi aiuta non può farmi che piacere.
“Dieci anni fa cadeva il Muro di Berlino, quello che dal 1961 teneva divisi est e ovest della Germania. La sera del 9 novembre del 1989…”
Il suo interloquire troppo pimpante per questa giornata di pioggia viene interrotto senza tatto dalla porta della classe che si apre con un leggero cigolio. “Fräulein, puoi uscire un momento?” È De Marco, il professore di storia dell’arte, che si ostina stupidamente a chiamarmi Fräulein solo perché insegno tedesco. Gli ho già detto decine di volte che questo appellativo si usa per le ragazzine minorenni, ma non sembra aver compreso – o forse continua a usarlo proprio perché mi ritiene una bambinetta scema.
Forzo un sorriso, non voglio che i miei alunni si accorgano del fatto che non lo sopporto. “Certo, vengo subito.”
De Marco infila un momento la testa in aula e lancia un’occhiata agli studenti. “Tranquilli, ve la restituisco subito” promette, un’espressione strafottente in volto.
Mantengo il mio sorriso falso finché non esco dall’aula, sbattendo la porta dietro di me mentre rivolgo un’occhiataccia truce a colui che ha interrotto la mia lezione. “Che diavolo vuoi?”

È da quando sono entrata in questa scuola, un paio di mesi fa per la supplenza annuale, che questo idiota bipede non mi dà tregua. Per provare a trovare impiego, da Policastro ho fatto domanda in Lombardia, sperando in cuor mio che non mi chiamassero – il mio sogno è quello di fare la scrittrice, non la maestrina di scuola. E invece, purtroppo per me, la nomina è arrivata subito, e io ho dovuto fare armi e bagagli e trasferirmi a Merate, un paesino minuscolo in provincia di Lecco che non avevo mai sentito nominare prima. Un solo liceo linguistico sul territorio comunale, una sola cattedra per l’insegnamento del tedesco. Vuota. Mia.
Non ci ho messo molto ad ambientarmi al nuovo paese alla dimensione scolastica. Del resto, cerco sempre di farmi andare bene tutto e di non lamentarmi troppo. Con la mia coinquilina sarda c’è intesa, il preside della scuola mi ha preso a cuore come fossi una figlia e le colleghe fanno del loro meglio per non farmi sentire l’ultima ruota del carro.

L’unico problema è lui, Achille De Marco. Insegna storia dell’arte, fa il cascamorto con chiunque indossi una gonna e io userei volentieri la sua faccia da schiaffi come tabellone delle freccette. Non riesco a credere che abbia studiato e conseguito una laurea – forse l’ha trovata in un fustino di detersivo o in una busta di patatine. È arrogante, borioso, saccente, egocentrico e ha un orgoglio grande quanto il sistema solare. Purtroppo per la mia sanità mentale, però, è anche bello da togliere il fiato e intraprendente quel tanto che basta a farlo cadere in piedi in ogni situazione – come un gatto. E poi con gli studenti ci sa fare, ha carisma e sa come prenderli pur riuscendo a mantenere la sua autorità in classe. Insomma, non posso dire che mi sia indifferente: mi piace, e anche parecchio – ma so che uno come lui impiegherebbe pochi secondi a frantumare il mio cuore in mille pezzettini. Per questo cerco di evitarlo in ogni modo possibile.
“Calma, Fräulein. Sono venuto a fare la pace, dopo quello che è successo l’altro ieri.”
“Ascolta, De Marco, ne abbiamo già parlato. Tu…”
Achille, dannazione! Puoi almeno chiamarmi per nome? Mica sono un tuo alunno!”
“Achille” concedo sbuffando. Un nome da eroe e una faccia da deficiente. “Posso sapere cosa devo fare per non averti più fra i piedi? Non ti sopporto più!”
“E andiamo…lo sappiamo entrambi che sei pazza di me.”
“Il pazzo sei tu” replico caustica. “Pazzo da manicomio.”
“Certo, come no. Sono venuto a chiederti se hai da fare sabato pomeriggio. Con qualche collega abbiamo pensato di fare un giro a Lecco e, visto che non hai la macchina, potrei accompagnarti io. Che ne dici?”
Potrei dirgli di sì – in verità in questo minuscolo paesino non c’è proprio nulla da fare – ma l’idea di andare in macchina con lui, magari da soli, mi fa ribrezzo. Potrebbe mettere in atto qualche sua volgare strategia di seduzione o, peggio, passare tutto il tempo a prendermi in giro. “Non posso, sono impegnata” mento.
“Qualche fidanzato di cui non conosco l’esistenza?”
“Perché, sei geloso?”
“Geloso io?” Si punta un dito sul petto. “So di non avere rivali, nessuno può competere con il mio fascino.”
“Sei solo un illuso.”
Non si dà per vinto. “Se non ci sei sabato, possiamo spostare a domenica anche con gli altri. Oppure possiamo vederci solo io e te domenica, che ne pensi?”
Il suo corteggiamento serrato mi fa mancare l’aria. “Nei tuoi sogni, forse.”
“No Fräulein, i miei sogni sono parecchio più piccanti di così.”
Devo dire che questa risposta me la sono tirata da sola. “Facciamo un patto” propongo, con la speranza di levarmelo di torno. “Io esco con te una sera, a cena, e tu smetti di rompermi le scatole una volta per tutte.”
“Una cena insieme?”
“Hai capito bene, De Marco. Una cena e basta, poi ti levi dalle palle. Ho la tua parola?”
“D’accordo, allora ci vediamo stasera a cena. Passo a prenderti alle otto e mezza.”
“Vuoi uscire già stasera?!”
Il suo sorriso tronfio mi fa venire voglia di strangolarlo e baciarlo allo stesso tempo. “Ho questa occasione sublime, perché non dovrei approfittarne subito? E poi – oggi sono esattamente dieci anni che è caduto il Muro di Berlino…se in questo giorno sono riusciti a far pace i sovietici e l’Occidente, qualche speranza di distensione c’è anche per noi due, non credi?”


Difficile a crederci se me lo avessero detto, ma ho trascorso una serata piacevole in compagnia di Achille. È stato puntuale nel venirmi a prendere e impeccabile nell’abbigliamento, mi ha portato in un posto carino (per quanto permettano i ristretti confini di Merate) e ha saputo tenere una conversazione che non sfociasse in un feroce litigio. Sa come trattare una donna, devo concederglielo. C’è da dire che è il suo sport preferito, quindi è piuttosto allenato. Fuori dalla scuola sembra quasi un’altra persona – meno arrogante, meno impettito, più spontaneo. Sembra anche più giovane.
Ora passeggiamo per le vie deserte del paese, intirizziti dal freddo. Non c’è anima viva in giro, e il rumore dei miei tacchi sull’asfalto è l’unica cosa che riempie l’imbarazzante silenzio che è calato fra di noi.
“La prossima volta magari potremmo andare fino a Robbiate, c’è un ristorante che fa della carne buonissima” dice a un tratto.
“Non credo ci sarà una prossima volta” lo stronco. “Ti ricordi? Una cena e poi basta.”
Il suo volto si rabbuia all’istante. “Siamo stati bene, abbiamo chiacchierato in maniera civile, non ci siamo scannati come nostro solito…che problema c’è a rivederci?”
“Hai ragione, ho trascorso una bella serata con te, sul serio. E ti ringrazio. Ma finisce qui.” Continuare a incontrarci potrebbe creare dei precedenti molto sbagliati e gettare le basi per una relazione che non deve neanche iniziare.
“Posso sapere il perché di questo tuo rifiuto?”
“Ho avuto a che fare con gli uomini, e non è mai andata a finire bene.”
“Non so con chi tu abbia avuto a che fare finora, ma posso assicurarti che non siamo tutti stronzi noi maschi.”
Lo guardo in tralice. “Se sei una brava persona come dici, perché fai di tutto per dimostrare il contrario?”
“Perché ci tengo a mantenere una pessima reputazione” replica beffardo. “Ad ogni modo, forse posso ancora farti cambiare idea sul mio conto.”
“Che cosa vuoi fare, De Marco?”
Smette di camminare e si ferma su due piedi in mezzo alla strada deserta. Sospira, e dalla bocca esce una nuvoletta di vapore bianco. Un passo più vicino a me, poi un altro. La sua mano sulla mia guancia, i suoi occhi nei miei, il suo pollice mi sfiora le labbra. È così vicino che posso sentire il suo respiro caldo sul mio volto. Così da vicino noto che ha i denti un po’ storti – in particolare quelli di sotto, alcuni sono accavallati – ma questo non diminuisce di una virgola il suo fascino. “Avanti, butta giù questo muro.”
“Come scusa?” gli faccio eco.
“Il muro che ti sei costruita attorno, la corazza impenetrabile per proteggerti dal resto del mondo. Che senso ha vivere se non si corrono dei rischi, se non si vivono avventure, se non si viaggia, se non si scoprono nuovi orizzonti? Che senso ha vivere se non ci si innamora?”
Sento chiaro e limpido il suo desiderio di baciarmi – qui, adesso. Ho come un sesto senso per queste cose – una sensibilità talvolta salvifica – percepisco sempre quando un uomo ha questa malsana idea. “Stai pensando di baciarmi, non è così?”
“Certo che sei bravissima ad ammazzare l’atmosfera, eh?” Ridacchia nervosamente. “È un problema?”
Non lo so. Che cosa può succedere in effetti? Che da domani in poi mi prenderà in giro senza pietà, più di quanto non faccia già ora? Che mi venga un conato di vomito per il disgusto, come la prima volta che ho baciato un ragazzo? O forse potrei scoprire che mi piace davvero, e che potrei seriamente pensare di innamorarmi di uno come lui. Quest’ultimo scenario è quello che mi fa più paura, e scommetto anche che sia quello più vicino alla verità. Ma non voglio tradirmi, non voglio fargli vedere quanto sia già dentro ai miei pensieri e al mio cuore. “No, non è un problema.”
“Sicura? Non voglio farti fare una cosa che non vuoi.”
“Sono qui, sto aspettando.” Credo sia la prima volta in cui autorizzo qualcuno a baciarmi in maniera così esplicita, i miei pochi partner precedenti si sono basati su un mio vago tacito assenso non troppo convinto.
Dopo essersi umettato nervosamente le labbra, mi incornicia il volto con le sue mani calde e sostiene il mio sguardo, come a volervi cercare anche la più piccola traccia di dubbio o ripensamento. So che se continua a guardarmi in questo modo potrebbe scoprire che lo sto già amando mio malgrado, per questo chiudo gli occhi.
Il cuore che fino ad ora mi martellava veloce nel petto sembra essersi quasi fermato. Sono come sospesa, fluttuante in un territorio che non conosco entro gli stretti confini delle sue mani, del suo corpo così vicino al mio che posso sentirne il calore pur senza toccarlo, del suo inebriante odore – dopobarba e qualcosa di unico, di suo. Attendo.
E all’improvviso le sue labbra contro le mie, un attimo fuggevole che dura un’eternità. “Allora?” La sua voce è un sussurro che quasi mi sfugge.
Apro gli occhi e mi mordo il labbro inferiore, confusa, frastornata. Qualcosa è cambiato, la barriera che mi sono sapientemente costruita attorno inizia a vacillare, ma non voglio darlo a vedere. “Non ho sentito nulla. Dammene un altro.”
Di nuovo le nostre labbra si scontrano per un momento, leggermente più lungo del precedente. Una nuova picconata al muro che ci divide e che inizia a creparsi in maniera più profonda. “E ora? Hai sentito ora?”
Scuoto la testa. “Dammi un bacio più serio.”
Le mie remore si fanno macerie polverose mentre mi bacia per davvero. Convinto, passionale, audace. Da farmi venire meno nelle ginocchia.
Quando ci separiamo non posso non notare la sorpresa, l’adrenalina che fa luccicare i suoi occhi scuri ancora fissi nei miei. Forse non avrei dovuto acconsentire a baciarlo, lasciarmi andare così. Già mi pento di aver goduto della sensazione delle sue mani addosso, dei suoi morsi famelici sulla mia bocca, del suo profumo che mi porterò sotto al naso fino a casa. Tutto questo mi ha destabilizzato, ha fatto crollare tutte le mie certezze e tutte le mie barriere – e per cosa poi. Per un sentimento sprecato, per un donnaiolo che di una come me non se ne fa nulla, per uno che…
“Shhh” lo sento sussurrare, come se riuscisse a sentire il turbinio dei pensieri che si affastellano nella mia mente. Mi sfiora la fronte con le labbra umide – protettivo, rassicurante, nulla a che vedere con la belva che ho conosciuto un attimo fa. “Smettila di torturarti ora. Ti riaccompagno a casa e ti fai una bella dormita, va bene? Domani ti verrò a salvare dalle macerie che ti sono crollate addosso.”


“Mauerfall” è una parola tedesca utilizzata per indicare la caduta del Muro di Berlino.

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