Corpus delicti

Nota dell’autrice. Questo racconto fa da seguito al racconto Il cappotto rosso, ma può essere letto anche senza recuperare il racconto precedente.

Il commissario Christopher Hopper ritardò per la terza volta quella mattina il suono della sveglia sul suo cellulare. Era solo nel letto, nudo, e aveva un mal di testa mai sperimentato prima di allora, come se fosse reduce dalla peggior sbornia della sua vita. Si passò una mano sugli occhi, esausto, cercando di riprendere contatto con la realtà. Con un verso di sforzo si alzò dal letto e andò in cucina.
Maledisse mentalmente la domestica messicana che si era presa una settimana di congedo per tornare dalla sua famiglia a Guadalajara, mentre dal lavello pieno di stoviglie ancora sporche, accumulate lì da giorni, prese un bicchiere da brandy usato. Lo sciacquò sotto l’acqua corrente e lo mise sotto il beccuccio della macchinetta del caffè automatica, quella che gli era costata un mese e mezzo di stipendio, attendendo con impazienza che quella cosa facesse il suo dovere e sputasse fuori il prezioso liquido nero. Aveva bisogno di darsi una svegliata, era tardissimo e doveva andare in commissariato. Sbuffò ancora al pensiero che lì vi avrebbe trovato Cindy e che la ragazza di certo non gliel’avrebbe fatta passare liscia in merito alla notte appena trascorsa: avrebbe voluto chiarire, parlare, spiegare, dare un senso a quello che era accaduto la sera precedente nel letto dal quale lui si era appena alzato.

Dopo aver firmato l’arresto della signora Le Blanc per il delitto Morrison, il giorno prima, Hopper aveva portato Cindy a pranzo fuori. La ragazza era rimasta sconvolta da quella confessione fredda e spietata e dal racconto dettagliato che la signora Le Blanc aveva fatto dell’omicidio della sua migliore amica, e lui aveva pensato bene di distrarla con un hot dog pieno di cipolle caramellate e un paio di Heineken ghiacciate. Dopo il pranzo avevano passeggiato, senza dirsi nulla – in effetti, il commissario era rimasto sorpreso dall’atteggiamento insolitamente taciturno della sua giovane collega, sempre pronta a chiacchierare e fare battute su ogni cosa, ma non aveva detto nulla in tal senso e aveva lasciato che quel silenzio li accompagnasse in giro per Austin fino al pomeriggio inoltrato.
Quando, mentre erano in macchina e lui la stava riportando a casa, Cindy gli aveva stretto la mano appoggiata sul seggiolino facendolo sussultare, il commissario aveva cambiato immediatamente percorso e deviato verso casa propria, come era ormai da anni abituato a fare ogni volta che si trovava ad avere una donna in macchina. Senza proferire parola si erano lasciati alle spalle il centro cittadino, e avevano raggiunto la periferia che ormai il sole era già calato e i lampioni già accesi.
Da quel momento in poi, i ricordi del commissario si facevano confusi. Ricordava il piccolo tatuaggio a forma di margherita che aveva scoperto sul fianco di Cindy quando le aveva tolto la camicetta bianca, la sua bocca che sapeva di birra e di mentine, le sue dita conficcate nella schiena fino quasi a fargli male, poi il buio. Era caduto in un sonno profondo e non si era nemmeno accorto che, nel cuore della notte, la ragazza aveva recuperato i vestiti e se l’era svignata come una ladra.

Ciò che non si aspettava e che non aveva proprio previsto era di trovarsi di fronte alla sonora assenza della sua giovane collega, una volta arrivato in ufficio. Cindy non era in commissariato, e non si fece vedere per tre giorni – Hopper venne a sapere dall’agente Carmine Lamarca che si era presa qualche giorno di congedo. Era forse per quello che era successo fra di loro che si stava dando malata? Magari non voleva rincontrarlo per paura dell’imbarazzo che sarebbe potuto nascere sul luogo di lavoro? Hopper non ne era sicuro, ma aveva come un presentimento che qualcosa di irreparabile era accaduto, e che le cose fra di loro non sarebbero state più come prima.
E infatti, a quattro giorni dall’arresto della signora Le Blanc, Hopper vide sulla propria scrivania una lettera di trasferimento da firmare: Cindy se ne stava andando, stava lasciando la centrale, ma aveva bisogno della sua autorizzazione firmata per farlo. Quel gesto, quell’addio così sonoro e roboante quanto freddo e distaccato, era chiaramente un effetto di quello che c’era stato fra di loro. Doveva andare da lei, doveva spiegarsi e sperare di non vederla uscire dalla sua vita per sempre – si era reso conto di amarla troppo per sperare di sopravvivere a quella separazione.

Finito il turno in commissariato si precipitò all’appartamento dove lei abitava, senza nemmeno passare da casa sua. Bussò più volte con il pugno contro la porta, ignorando il fatto che ci fosse un campanello funzionante e continuando a fregarsi nervosamente le mani.
In tuta e a piedi scalzi, con i capelli raccolti alla buona in uno chignon alla base della nuca, Cindy sembrava non dormisse da una settimana – come lui, del resto. “Che cosa vuoi, Hopper?” sbottò.
“Mi fai entrare?”
Cindy si spostò appena dall’uscio, quel tanto che bastava a farlo entrare, poi richiuse la porta alle loro spalle. “Stavo mangiando” disse, mentre gli faceva strada verso la piccola cucina.
“Non ti preoccupare, non mi fermo a lungo.” La sua intenzione era quella di andare subito al sodo e non perdere tempo in inutili convenevoli. Prese uno sgabello e si sedette al tavolo davanti a lei. “Ho saputo che te ne vai.”
“Già.”
“E perché?”
“Motivi personali, non devo darne conto a te.”
“Ed è sempre per motivi personali che non sei venuta in commissariato in questi giorni?”
“Volevo evitare questa patetica conversazione.”
“Volevi che non parlassimo di quello che è successo? Pensavi che non avessimo niente da dirci?”
“Io…sì, pensavo proprio questo. Non è successo niente, niente di cui valga la pena parlare. Siamo solo due colleghi, che si sono rilassati insieme a conclusione di una giornata un po’ pesante, e che hanno finito col fare sesso – nulla di più.” Si alzò e prese a sparecchiare la tavola, sistemando i piatti sporchi nel lavello. Non voleva che lui vedesse il turbamento che aveva rabbuiato il suo volto.
“Tu dici?!” Hopper batte il pugno sul tavolo, in preda a uno scatto d’ira. “Eri vergine, Cindy – perché diavolo non me lo hai detto?!” Il gemito che aveva sentito quando era entrato dentro di lei non era stato di piacere ma di dolore, e la sua impacciata titubanza era stato un imbarazzante intruso per tutto il tempo che erano stati insieme. E poi, aveva visto una minuscola macchia di sangue sul lenzuolo. Cosa credeva, che non se ne sarebbe accorto? Era un poliziotto, notare i dettagli era parte del suo mestiere. Anche se faceva di tutto per mostrarsi sfrontata e disinibita, era ancora una ragazzina inesperta della vita e dell’amore, che aveva voluto vivere la sua prima volta con lui. Questo doveva significare pur qualcosa.
“La mia vita sessuale non ti riguarda” provò a difendersi Cindy.
“Sto dicendo che era una cosa importante per te.”
“E perché, per te non lo era? O sono semplicemente uno dei nomi da aggiungere all’infinita lista delle tue amanti?” La voce le si incrinò per il pianto e per la rabbia che le stava montando dentro. Desiderò non essersi innamorata di lui, non esserci andata a letto, non averlo mai conosciuto. “Vattene da questa casa, Hopper. Per favore.”
Il commissario la raggiunge e la cinse da dietro per i fianchi, costringendola a girarsi verso di lui, poi la trascinò sul piccolo divano dove la mise seduta sulle sue gambe. Con una mano le serrò i polsi dietro la schiena, mentre con l’altra cercò il suo volto per accarezzarlo e asciugarle le lacrime, ignorando i suoi tentativi di svincolarsi.
“Lasciami!” sibilò la ragazza mentre si dimenava nella sua stretta. “Sei uno stronzo.”
Hopper annuì. “Uno stronzo che si è innamorato di te.”
“Uno stronzo bugiardo” lo corresse, con amarezza. “Non mi fido, commissario.”
“Ascoltami Cindy, tu…”
La ragazza lo zittì scuotendo la testa. “Io lo so come sei, come siete tutti. Dite che siete cambiati, che stavolta è diverso, che sarà per sempre, e poi invece tornate gli stessi bastardi traditori che eravate. Come mio padre, che cambiava amante ogni settimana e tornava a casa con la sua faccia di bronzo, incurante della sofferenza che procurava a mia madre e a noi. Io non ho bisogno di un uomo così nella mia vita – non me ne faccio niente.”
“Aspetta, non è come credi tu.” Il commissario sospirò, comprendendo che da quella ragazzetta non sarebbe riuscito a tirar fuori uno straccio di confessione. Diversamente da quanto accadeva quando conduceva gli interrogatori, quella volta volle essere lui a confessare il delitto. “Io…ti amo, Cindy, sul serio.” Lo aveva detto, si era liberato di quel peso che si portava dietro come un macigno. “Sei libera di non crederci, ma è vero.”
Cindy tirò su col naso, come una bambina piccola. “E perché allora continui a tenermi lontana da te?”
“Paura, credo. Non sono bravo nelle relazioni umane, e ho paura di fare un casino anche con te – non te lo meriteresti.”
“Mettiamo in chiaro una cosa, commissario. Tu fai il bravo, ti comporti bene con me, sei sincero e onesto, e non ti accadrà nulla, d’accordo? Ma se ti azzardi a farmi del male, giuro che ti strozzo con le mie stesse mani – e farò in modo che la polizia non capirà mai che sono stata io. Sono una poliziotta anche io, so bene come nascondere le tracce.”
“D’accordo, bimba. Farò il bravo, te lo prometto.” L’impegno che si stava assumendo in quel momento, ne era consapevole, era gravoso. Non sarebbe stata una passeggiata, una relazione fra di loro – due teste calde, due temperamenti troppo arroganti che non sarebbero scesi facilmente a compromessi. Ma sapeva anche che ne valeva la pena provarci.
“Adesso mi porti a letto?” sussurrò Cindy al suo orecchio, distogliendolo dalle sue riflessioni.
Hopper rise di gusto. Una risata liberatoria che era preludio ad una notte magica e, lo sperava, ad un lungo periodo trascorso con quella ragazzetta dalla lingua un po’ troppo lunga ma dal cuore immenso. “Deduco che la mia performance dell’altra sera sia stata apprezzata” le rispose.
“Sta’ zitto e baciami, idiota.”
Le loro labbra si incontrarono a metà strada, titubanti e timide, prima di unirsi nel più lascivo dei baci.


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